uella che segue è una meditazione un po' grave nel tono e soprattutto nell'argomento. E' anche la testimonianza di una "tappa" contrassegnata con il marchio della necessità. Coloro che mi hanno seguito nel racconto del mio incontro - così continuo a definirlo - con Ralph Waldo Emerson erano stati messi sull'avviso che consideravo un dovere, morale e intellettuale, fare del mio meglio per andare "oltre Emerson". Non fosse altro che per corrispondere all'invito a trovare ciascuno la propria strada, a non essere seguaci che di se stessi, invito instancabilmente rivolto a tutti coloro che si sono avvicinati a lui come a un maestro e una guida . E così, ecco che affido al cyberspazio, dopo il mio "tributo" al grande amico americano, una specie di risposta. Emerson mi ha toccato nel profondo, questo l'ho detto e ribadito molto chiaramente nel sito che gli ho dedicato. E difficilmente credo che desidererò mai sottrarmi all'influsso salutare e potente che da quel torrente di montagna, da quelle acque rigeneranti, si è riversato su di me. Ciò nondimeno, proprio la radicalità di quell'esperienza - sì, lo dico ancora una volta, perché di questo si tratta, nel senso più pieno e meno intellettualistico e libresco del termine - ha interpellato uno ad uno tutti gli aspetti della mia esistenza, tutte le risorse, fino ad incontrare l'unico centro gravitazionale che in qualche maniera risultava ancora impermeabile ai lavacri di tanto inesauribile sapienza. Emerson, come aveva perfettamente capito il Parrington, non ha trasmesso una filosofia, ma una fede. Io vorrei spingermi qualche metro più in là e suggerire che forse quella fede - in accordo con un'insofferenza tutta romantica del Nostro per le "gabbie" e i legami troppo stretti, fossero pure di parole - assomiglia così poco a una dottrina da mantenere, della fede, solo il carattere dinamico, di pura energia trasformatrice degli spiriti e dello stesso mondo materiale. Che questa forza, nella sua purezza "pagana" e "barbarica", se così posso sprimermi attribuendo a queste parole solo il significato liberatorio che certamente posseggono, non fosse da mettere in relazione troppo strettamente con quanto la cristianità ha sempre ritenuto limiti invalicabili, non ho mai avuto dubbi. Ma il redde rationem, per quanto mi riguarda, era comunque inevitabile. Potrei magari arrivare a dire che per lo più si tratta di raffinatezze terminologiche, alle quali per altro lo stesso Emerson, a sua volta intellettuale raffinato (tale lo considerava ad esempio un giudice per solito molto severo come Nietzsche), non si sottraeva di certo. Ma per lo più, appunto, non vuol dire esclusivamente. Di qui questa meditazione. Che, come tutte le cose che hanno contato realmente nella mia vita, affonda le radici in un'esperienza realmente vissuta, interiormente ed esteriormente. Infatti, essa parla di un viaggio, un viaggio vero in luoghi reali come il Santuario di San Michele sul Gargano e il monte della Verna, nel Casentino. E un viaggio dello spirito, attraverso i luoghi più sacri del mio universo interiore. Due esperienze parallele, insomma, strettamente intrecciate fino ad essere una sola, fornita di coordinate spazio-temporali, ma anche di tutte le ineffabili prerogative che rendono possibili senzazioni di un tipo completamente diverso. Da qualche parte, non ricordo dove, Emerson fece questa raccomandazione (le parole non sono le stesse, ma il concetto sì): scrivi per te stesso, non curarti se ciò di cui parli ti può sembrare poco interessante per gli altri o addirittura sgradito. Se sarai in grado di dire cose veramente importanti per te e nelle quali tu potrai interamente rispecchiarti, l'universo stesso vi si rispecchierà. Chi conosce Emerson ha capito perfettamente cosa questo pensiero sottende. Ho cercato di seguire il suggerimento, e non è stato difficile. Probabilmente, neppure se avessi voluto avrei potuto fare diversamente. Ora, se volete, seguite il link per leggere il seguito: «Emerson alla Verna: Nel Segno del Tau» |