Un importantissimo nodo della bioetica è quello del rapporto tra quest'ultima e la filosofia. Ad alimentarlo concorrono sia la riabilitazione della filosofia pratica , con un riaccendersi dell'interesse per l' etica di Aristotele e di Kant, sia gli sviluppi della riflessione filosofica sull'etica in ambito anglosassone.
        In particolare, il ruolo della ragione in bioetica e la specificità della razionalità pratica si segnalano come i problemi più radicali e decisivi. Sempre che si riconosca come inadeguata e imperfetta una ragione attentissima alla logica e alla congruenza dei passaggi e delle deduzioni ma incurante degli effetti e delle conseguenze di determinate azioni.

        Un esempio perfino un po' imbarazzante di "ragione imperfetta" è costituito dal caso del filosofo australiano Peter Singer, che pure è l'autore di un libro, Animal Liberation , che gli ha dato fama mondiale e gli è valso il consenso di tanti animalisti, dal momento che si tratta di un vero e proprio manifesto dei diritti degli animali...

«Ma le sue ultime tesi lasciano perplessi. Secondo Singer è più che lecito condurre sperimentazioni scientifiche sugli embrioni umani, almeno fino al momento in cui possono "sentire", provare dolore. Secondo l'approccio neoutilitarista, infatti, il principale criterio guida nella valutazione dell'eticità delle nostre azioni è quello dell'accrescimento del piacere, in opposizione al dolore o alla sofferenza, nell'uomo come negli animali non-umani. Su questa stessa base, Singer sostiene la necessità di porre fine a ogni esperimento su animali non-umani.
Da alcuni anni questo approccio è stato trasposto in altri campi della pratica scientifica. In modo particolare nella riflessione sullo status morale degli embrioni umani, problema direttamente connesso con i dibattuti temi dell'aborto, della fecondazione in vitro e della sperimentazione sugli embrioni. La tesi di Singer a questo proposito è che gli embrioni umani, non essendo dotati di cervello e di sistema nervoso centrale (almeno fino alla sesta settimana dopo la fecondazione), non sono sensibili e che quindi non si vedono ostacoli etici alloro utilizzo in sede sperimentale. Questo permetterebbe inoltre di evitare la sperimentazione animale. "In poche parole," conferma Singer, "ritengo che l'embrione nella prima fase dello sviluppo non sia un soggetto moralmente rilevante. Il motivo è che non può soffrire o provare dolore in nessun modo fino al momento della comparsa di un sistema nervoso centrale completo e funzionante, data che non si può stabilire con esattezza ma che certamente non cade prima della sesta settimana."
L'impressione ricavata da queste frasi è quella di un'etica incompleta, di una specie di esercizio intellettuale limitato alla determinazione dello status morale e giuridico del soggetto in esame, con scarsa o nessuna attenzione per le implicazioni su una scala diversa, quella sociale. In un libro dedicato a un argomento adiacente (scritto insieme a Helga Kuhse, Should the baby live? the problem of handicapped children, Oxford University Press, 1985), Singer si spinge ad argomentare che la sola appartenenza alla specie umana non può essere considerata un vincolo morale, come invece devono essere la presenza di autoconsapevolezza e la capacità di provare piacere o dolore. Non esisterebbero quindi motivi di opporsi a sperimentazioni indolori, all'infanticidio di bambini handicappati nei primissimi attimi di vita (quando ancora non completamente autocoscienti), all'eutanasia di malati in condizioni di incoscienza definitiva. Il tutto, naturalmente, sotto la tutela di una commissione etica. In questo caso, un criterio efficace in un certo ambito (i diritti degli animali non-umani) trova un'estensione meccanica e problematica in un altro dominio (quello umano), per cui forse varrebbe la pena di considerare almeno dei criteri addizionali. Il fantasma di un'etica "troppo" razionale, moderna, tragicamente adeguata allo spregiudicato spirito del tempo, si fa strada tra le pagine scritte da Singer».

(Fabio Terragni, Il codice manomesso. Ingegneria genetica: storia e problemi, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 166-167)

         Onde evitare le secche di cui sopra, non sono pochi gli studiosi che, pur di diverse provenienze e sensibilità, si ritrovano concordi nel mettere l'accento più sulla ragionevolezza che sulla razionalità del ragionamento in bioetica.

        Vale la pena, a questo punto, di seguire il ragionamento di Luisella Battaglia, che invita a identificare, sulla scia di Perelman, la ragione della bioetica in "una ragione eminentemente pratica, volta alla decisione e all'azione ragionevole":

«Bioetica, dunque, se si vuole, come filosofia del ragionevole in senso perelmaniano. "Il ragionevole - secondo la definizione di Perelman - non rimanda ad una ragione definita come riflesso e illuminazione di una ragione divina, invariabile e perfetta, bensì ad una situazione prettamente umana, la presunta adesione di tutti coloro che, rispetto alle questioni dibattute, vengono considerati interlocutori validi". E ancora: "Il ragionevole si elabora attraverso il concorso di tutti gli esseri umani suscettibili di integrarsi nell'uditorio universale ed esige il confronto delle loro idee, la conoscenza delle loro effettive reazioni" (Ch. Perelman, Si possono fondare i diritti dell'uomo?, in Id., Morale, diritto e filosofia, Guida, Napoli 1973, p. 92).
Si tratta di indicazioni assai importanti per la bioetica. Ne emerge innanzitutto l'idea di una razionalità aperta, che non data una volta per tutte, in via definitiva, ma che si costituisce attraverso il confronto con tutti gli interlocutori possibili, in un dialogo senza fine.
(...) Nel diritto si manifesta quella virtù a cui il ragionamento pratico applicabile in morale dovrebbe ispirarsi: la prudenza, l'aristotelica fronesis, la quale - scrive Perelman - "è caratterizzata dal fatto di prendere in considerazione aspirazioni diverse e interessi molteplici e si è così brillantemente manifestata in diritto nella juris prudentia dei romani" (Ch. Perelman, Diritto e morale, in Id., Morale, diritto e filosofia, cit., p. 310).»

(Luisella Battaglia, "La bioetica come filosofia del ragionevole", in Centri di bioetica in Italia, a cura di Corrado Viafora, Fondazione Lanza e Gregoriana Libreria Editrice, Padova 1993, p. 171).

Interessante è anche la diversità richiamata dalla Battaglia tra i "requisiti di coerenza" operanti nei contesti normativi (e quindi in bioetica) e quelli operanti nei contesti logico-scientifici:
«In contesti cognitivi è certo una virtù discutibile quella di chi mostri tolleranza per le concezioni degli altri quando queste siano manifestamente false o possano dimostrarsi tali: la verità non può essere soggetta a compromessi. In contesti normativi, come in bioetica, non siamo alle prese con conflitti di tipo logico, bensì con conflitti che riguardano la priorità dei valori nel sistema, la loro gerarchia, il loro ordine interno. Ne deriva che non è possibile risolvere i dilemmi bioetici allo stesso modo in cui affrontiamo le contraddizioni logiche». (Ibidem, p. 184)

        Con accenti simili, se non in perfetta sintonia, Antonio Autiero richiama l'esigenza di modellare la riflessione in bioetica sul carattere unitario e "olistico" del "fenomeno della vita", e di fondare i "giudizi pratici in questioni riguardanti la totalità della vita" su una metodologia "intercambiabile", "flessibile"e "morbida".


«Forse nessun altro campo dell'etica applicata manifesta tanta intolleranza alla polarizzazione come la bioetica. In ragione della sua indole olistica e sensibile all'impiego duttile di una metodologia di segno integrativo, la bioetica sfugge alla connotazione di disciplina che si serve di poli reciprocamente escludentesi. Un esempio particolare, ma speculare, è il seguente: se si fanno agire l'uno contro l'altro il polo della santità della vita e quello della sua qualità non si riesce a rendere ragione di diversi fattori che restano necessariamente in ombra e appesantiscono i processi di fondazione dei giudizi pratici.
La tendenza sviluppatasi nella concezione di "ragione lineare", tipica della razionalità moderna, ha sempre fatto ricorso all'affermazione di un unico polo di riferimento. Molto spesso questo è diventato come un "meta-principio" da cui dedurre altri principi regolativi dell'agire. Ma per il fatto di essere chiuso nell'ottica del polo unico ha prodotto principi non comunicabili e non assumibili da concezioni del polo opposto.
Questo tipo di ragione che definivamo lineare e meta-principialistica non è più all'altezza di cogliere la portata reale delle condizioni di vita, nel senso globale del termine. La modernità si autoconverte ad un compito più grande e più complesso; essa comprende la necessità di una metamorfosi che le faccia trovare il gusto dell'inter-polarità e perciò stesso la abitui ad una logica maggiormente comunicativa. La ragione di cui abbiamo bisogno è quella di tipo "trasversale" che - lo aveva intuito Wittgenstein nella prefazione delle sue Philosophiche Untersuchungen - ha per caratteristica fondamentale quella di abbracciare il destino di una radicale pluralità in cui va a dissolversi la presunta totalità unificante, che era il sogno e l'impresa della modernità.»

(Antonio Autiero, Introduzione a Centri di bioetica in Italia, a cura di Corrado Viafora, Fondazione Lanza e Gregoriana Libreria Editrice, Padova 1993, pp. 26-27)

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