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Un'ampia ed accurata ricostruzione di Fabio Terragni (Il codice manomesso. Ingegneria genetica: storia e problemi, Feltrinelli, Milano 1989) illustra e argomenta la tesi in base alla quale una messa in discussione del modello dominante di scienza è oramai irrinviabile. Tra l'altro Terragni riassume e cita le tesi di alcuni tra maggiori protagonisti del dibattito svoltosi in questi anni, per cui il lungo brano che segue può essere di notevole aiuto per comprendere uno degli aspetti più controversi del dibattito sulla bioetica. «La bioetica rischia (...) di rimanere all'interno del modello di razionalità tradizionale che prevede l'irresponsabilità di scienziati e ricercatori. Gli esperti di bioetica sovente si appellano alla dea ragione per dirimere i conflitti; ma si tratta sempre di una ragione "interna", più attenta alla logica e alla congruenza dei passaggi e delle deduzioni che agli effetti e alle conseguenze di una certa azione. La bioetica rischia di rimanere complice di quella "razionalità imperfetta" che, pur colpevole di molti guai, pretende un ruolo di arbitro assoluto. Le conclusioni dei bioetici vengono spacciate come soluzioni logiche e quindi indiscutibili, e necessariamente dotate di valore normativo. Spesso le conclusioni "logiche" finiscono invece per essere lontane dal semplice buon senso».(Op. cit., pp. 166-167) Un po' più avanti Terragni ribadisce la critica facendo riferimento ad Antonio Autiero, (Legittimazione etica della ricerca biologica, in Rivista di Teologia Morale, 74, 1987, pp. 37-46) e introduce una prospettiva alternativa all'impostazione dominante, quella di Hans Jonas. Secondo quest'ultimo il potere della scienza sulla materia, sulla vita e sull'uomo stesso è cresciuto al punto tale che l'attività umana può avere conseguenze vastissime nello spazio e nel tempo. Egli pertanto teorizza un cambiamento del concetto di responsabilità, introducendovi la preoccupazione per le generazioni future: occorre includere il futuro dell'uomo tra gli obiettivi che gli esseri umani, con le loro scelte, devono perseguire. (Dell'opera fondamentale di Jonas, Il principio responsabilità, si può consultare un'ampia recensione) «In genere filosofi e bioetici si limitano a prendere in esame solo le applicazioni della ricerca, il prodotto ultimo dell'agire scientifico, eludendo "il riferimento al mondo dell'agente, al suo universo motivazionale, alle finalità e agli atteggiamenti espressi". Una "tara" che può condizionare l'efficacia della bioetica, tendenzialmente inerte di fronte alle tradizionali visioni del rapporto scienza-tecnologia e della neutralità della scienza. In assenza di una rottura, la bioetica è probabilmente destinata a rimanere insufficiente. Nel panorama della bioetica si trovano però anche opzioni più radicali. E per esempio il caso della cosiddetta ''etica negativa'', secondo cui la considerazione delle diverse velocità di sviluppo del sapere scientifico (e quindi di generazione delle possibilità) e della "competenza etica" dovrebbe indurre a chiedere un rallentamento della scienza. In sostanza è l'orientamento di chi propone moratorie alla ricerca, per lasciare alla riflessione etica il tempo per far fronte alle nuove sfide. Uno dei principali sostenitori di questa posizione è il filosofo tedesco-americano Hans Jonas, secondo cui la incredibile velocità di progressione della genetica molecolare richiederebbe una "pausa di riflessione" (cfr. A. Autiero, op. cit.). Per quanto necessaria, tale etica della non-azione non può che rappresentare solo un primo passo. Si deve poi provvedere a completare là frenata con un cambio di direzione. Secondo un altro filosofo citato da Autiero, H.M. Sass, "dobbiamo invece accelerare l'intensità e l'ampiezza della nostra personale, pubblica e professionale argomentazione etica in tema di uso responsabile delle innovazioni tecniche per il bene e l'arricchimento dell'uomo, al punto di riuscire a pilotare la rivoluzione tecnica in maniera anticipatoria e strategica, di poterne rispondere in sede terapeutica e di poterla tenere sotto controllo dal punto di vista etico-culturale". L'idea di Sass è riferita in modo particolare alle applicazioni, ma dovrebbe invece essere utilizzata come ispirazione per una critica profonda della scienza, a cui non sfugga la più generale dimensione epistemologica. L'indicazione delle precise responsabilità dei ricercatori potrebbe condurli a un ripensamento sui modi, sulle tecniche, sulle finalità del proprio lavoro. "Il principio secondo cui gli scienziati non sono responsabili delle conseguenze delle proprie azioni," ha affermato il filosofo Daniel Callahan, "oggi non è più sostenibile [...]Il ricercatore ha il dovere di usare la sua immaginazione morale nella stessa misura in cui usa la sua immaginazione scientifica" (D. Callahan, Comunicazione al seminario della Fondazione Balzan "Key Issues in Bioethics", Isola di San Servolo, Venezia, 12-13 maggio 1988). A questo dovere vorremmo aggiungerne un altro: quello di usare anche l'immaginazione filosofica, epistemologica. Il mestiere del ricercatore comincerebbe a diventare forse troppo difficile, ma in questi compiti non andrebbe lasciato solo. Inoltre è bene dire che non si tratterebbe di un surplus di responsabilità: secondo Callahan questa richiesta non avrebbe nulla di speciale, ma sarebbe equivalente per ogni categoria professionale con la particolarità, in questo caso, della straordinaria potenza della scienza». (Fabio Terragni, Il codice manomesso, cit., pp. 168-169) Da tutto ciò si può ben comprendere come da più parti si senta il bisogno di promuovere un' etica della responsabilità, che fornisca nuove chiavi interpretative per affrontare i complessi e difficili problemi posti dai progressi delle scienze e delle tecnologie della vita. E' ciò che fa, d esempio, il sociologo francese Edgar Morin (Scienza con coscienza, Franco Angeli, Milano 1987), che critica la visione tradizionale del ricercatore, servitore di una scienza che "separa per principio fatto e valore; elimina, cioè, al suo interno, ogni competenza etica, fonda il suo postulato di oggettività sull'eliminazione del soggetto dalla conoscenza scientifica", negando in tal modo qualsiasi responsabilià nei confronti della società da parte dello scienziato... «L'etica della responsabilità, al contrario, ''è caratterizzata principalmente da due considerazioni fondamentali: la riflessione sulle conseguenze delle decisioni assunte e il calcolo dei processi che vengono innescati con tali decisioni. Contrariamente a un'etica della convinzione, dove ogni azione è considerata come esecuzione di grandi principi generali - a volte intesi come fondamenti di un'etica naturale - l'etica della responsabilità assume nelle decisioni scientifiche, come in quelle politiche, le componenti e variabili culturali che storicizzano concretamente una scelta" (P. Quattrocchi, Etica, scienza, complessità, Franco Angeli, Milano 1984). Attraverso l'acquisizione di questa prospettiva etica, che non solo non impone un unico punto di vista, ma anzi reintroduce una dimensione esplicitamente soggettiva nella ricerca, la scienza può finalmente tornare a porsi le domande che ne hanno segnato l'esordio, a interrogarsi sulle proprie finalità e sul proprio significato: caratteristiche non estranee, ma del tutto intrinseche all'attività scientifica, che potrebbe così riscattare la propria coscienza. (...) L'etica della responsabilità, che ha come principali soggetti gli scienziati, dev'essere estesa e coinvolgere una pluralità di attori. L'estrema parcellizzazione del lavoro scientifico, la mancanza di abitudine al lavoro multidisciplinare, gli interessi di categoria in gioco, l'inevitabile parzialità del punto di vista e l'umana tendenza al mantenimento di privilegi acquisiti rendono infatti necessario l'intervento di soggetti esterni all'attività scientifica. Equivale a dire "la scienza è troppo importante perché se ne occupino solo gli scienziati", e questo non tanto per una dichiarazione di sfiducia cronica nei loro confronti, quanto perché in generale nei sistemi sociali è bene stabilire una fitta rete di controlli incrociati. "La riflessione etico-filosofica entra allora nel processo della ricerca scientifica in funzione cibernetica, proponendosi come scienza del controllo della decisione, tentando di definire i segnali di arresto, di partenza, di allarme che controllano il passaggio da quello che si può fare a quello che si decide effettivamente di fare" (P. Quattrocchi, op. cit.). L'idea di una cibernetica sociale, di un network di retroazioni, è fondamentale per garantire un equilibrio tra scienza e società, un'armonia tra i bisogni espressi dai cittadini e la direzione intrapresa dalle ricerche, che hanno valore strategico e prefigurativo. Il flusso delle informazioni deve andare dalla comunità scientifica alla società e da qui tornare alla comunità scientifica. L'etica diviene dunque un importante fattore di mediazione tra sistema scientifico e sistema sociale e politico». (Fabio Terragni, Il codice manomesso, cit., pp. 185-186) Dopo i filosofi Terragni cita due scienziati, due personalità tra le più inquiete della comunità scientifica, che hanno fatto molto discutere con il loro grido d'allarme ... «Non c'è dubbio che si tratti di anni emozionanti e difficili per i biologi. Trascinati, protagonisti non sempre consapevoli, in una rivoluzione scientifica e tecnojùgica, produttiva ed etica, i ricercatori direttamente coinvolti nei progressi delle ''scienze della vita tendono a negare l'evidenza, a rassicurare (e rassicurarsi), a promettere futuri positivi e ricchi di scoperte. L'immagine del treno in corsa, in una folle e spericolata corsa verso il nulla, a cui i passeggeri-macchinisti possono reagire con l'ebbrezza o con il terrore, è una calzante metafora. Alcune tra le personalità più inquiete della comunità scientifica hanno già gridato di voler scendere, di non voler più "giocare", che la posta in gioco è troppo grande. Erwin Chargaff, vecchio biochimico austriaco rifugiatosi in America, da sempre dotato di una inconfondibile carica polemica, lo ha fatto in modo clamoroso. Il 21 maggio 1987, il numero di Nature conteneva un editoriale dal titolo Engineering a Molecular Nightmare. Dopo essersi scusato per non essere uno specialista del settore ("ma spesso ", si legge nel testo, "l'expertise paralizza il buon senso"), Chargaff si lanciava in durissime accuse alle tecnologie riproduttive, alla "produzione semi-industriale di bambini", alle possibili conseguenze nefaste. Andava anche oltre, sparando a zero contro le tendenze riduzioniste della biologia moderna ("Non sappiamo cosa sia la vita, eppure la manipoliamo come se fosse una soluzione di sali inorganici"), l'inconsistenza delle norme etiche adottate dagli scienziati, la crescente commercializzazione della scienza ("Si può arguire quanto siano altruisti gli scienziati, con i loro occhi levati verso l'impero della conoscenza e della verità, dal fatto che in nessun caso - per quanto mi è dato di sapere - sembrano aver considerato che durante tutte queste operazioni un mucchio di soldi passa di mano, una circostanza che spesso modifica l'aroma etico"). Ma ci sono parole ancora più dure: "La confusione che sconvolge la società, quando si ha a che fare con i frutti dell'attuale ricerca scientifica, non deve sorprendere. Era infatti diffusa l'abitudine di considerare la scienza, anche nel nostro secolo, tra i più alti e puri compiti dell'umanità. La scienza era la ricerca senza fine della verità sulla natura, un'impresa che ci avrebbe aiutato a capire come funziona il mondo. Credo che quell'era sia invece finita con la fissione del nucleo atomico, con la manipolazione del nucleo cellulare, con la capacità di modificare il nostro apparato ereditario. Ha avuto inizio una nuova era: ora la scienza è il mestiere della manipolazione, della modificazione, della sostituzione e della sottomissione delle forze della natura. Questo non vale naturalmente per tutte le discipline scientifiche, ma calza a pennello per quella forma di biologia applicata che potrebbe condurre a brutalità che la società, una volta desta, potrebbe non sopportare [...] I grandi progressi compiuti nel nostro tempo dalla scienza - specialmente nelle sue applicazioni - sono composti di un'infinità di piccoli passi, ognuno dei quali appare innocuo o anche benefico all'opinione pubblica [...] Ma già si può vedere l'inizio dell'allevamento umano, di impianti di riproduzione industriale. Chi può impedire la produzione di massa e lo sfruttamento industriale degli embrioni umani, l'emergenza di una nuova branca delle biotecnologie? Chi può negare l'interesse scientifico della produzione di chimere, dello studio di embrioni umani cresciuti in un utero animale? Penso che la società possa prevenire tutto questo, ma temo che non lo farà. Quello che vedo all'orizzonte è un gigantesco mattatoio, una Auschwitz molecolare, in cui al posto dei denti d'oro verranno estratti ormoni, enzimi e altre proteine di valore."Un altro scienziato di calibro ha recentemente portato alla luce le sue perplessità, il biologo francese Jacques Testart. Nel suo libro-denuncia L'uovo trasparente, Testart compie la stessa parabola descritta da Chargaff: a partire dalla critica profonda delle tecnologie riproduttive, giunge a una valutazione complessivamente negativa sulle attuali tendenze della scienza. "Ci rimangono alcuni anni felici prima di essere in grado di manipolare il genoma umano, ma sappiamo già stabilire la carta genetica che è l'autentica carta d'identità; sappiamo inoltre individuare con diagnosi sempre più precoci i futuri indesiderabili, portatori di deviazioni irreversibili rispetto alla norma. In termini logici inconfutabili, alcuni auspicano una diffusione sempre più ampia di tali diagnosi per scoraggiare certi matrimoni o evitare determinate nascite che pare siano in grado di alterare la qualità di una società moderna. Poiché, per le tare più gravi, l'eliminazione del feto viene già praticata, si pone, ancora una volta, la necessità di definire una soglia, quella che rende l'uomo tollerabile all'uomo [...] Il ricercatore dovrebbe sentire l'esigenza di porre un limite a se stesso, in quanto non deve necessariamente essere l'esecutore di ogni progetto che nasca nell'ambito della logica specifica della tecnica [...] Esigere un'etica che sappia rifiutare la ricerca significa contestare la concezione semplicistica che sostiene la legittimità e la fondatezza di una concatenazione automatica di processi. Rivendicare il diritto al progetto ambizioso di capire ciò che si è già realizzato e di cercare di teorizzare quanto si realizzerà in futuro. Significa quindi provare l'esigenza quasi fisica, carnale, di partecipare a una riflessione pluridisciplinare sul significato della produzione scientifica." Per entrambi gli autori va rimesso in discussione il valore assoluto solitamente attribuito al progresso e all'innovazione scientifica e tecnologica. Il polemico Chargaff, all'inizio del suo commento, scrive: "Spesso si dice che il progresso - sociale, economico, scientifico e anche culturale - sia guidato dalla tecnologia. Ma va considerato anche un punto di vista alternativo: che siano le domande, i bisogni, le urgenze, sorte in modo inesplicabile, a generare le tecniche adatte alla loro soddisfazione. In altre parole i detti 'dove c'è una strada c'è una volontà' e 'dove c'è una volontà c'è una strada' valgono entrambi. La produzione semi-industriale di bambini sembra appartenere alla prima categoria: la domanda era meno travolgente del desiderio di parte degli scienziati di sperimentare le loro nuove tecniche." Gli fa eco Testart: "L'innovazione non è quasi mai univoca. Limitarci a dire che contiene le sue contraddizioni significa accettare la nostra viltà intellettuale che ci permette di evitare un'analisi attenta dei diversi aspetti della modernità. Siamo i drogati di un destino che non è frutto di alcun progetto e di cui simuliamo una padronanza che non abbiamo affatto. Il progresso è una nozione soggettiva il cui oggetto dev'essere continuamente definito; la sua connotazione fortemente positiva è determinata, in ogni momento storico, dalla nostra ossessiva paura di un ritorno alla situazione anteriore [...] Il progresso ha valore d'obbligo; e, dal momento stesso in cui si produce, ha potere d'alienazione. Ammettiamo di confondere la somma sempre crescente delle cose che conosciamo con una migliore qualità della vita, il cambiamento con il perfezionamento [...] Siamo preparati per la produttività cieca dei bisogni meschini in cui il desiderio si diluisce, il significato si perde, l'essere si normalizza. Nei casi migliori l'innovazione consiste nella produzione di soluzioni finali zzate a bisogni espressi. Ma accade che l'innovazione preceda il bisogno o il senso di carenza [...] Procreazioni assistite, tecnologie industriali o agricole, automatizzazione derivano da un'ideologia comune che costituisce la religione del progresso tecnico [...] Il vero motore della marcia," prosegue Testart, "non e affatto la ricerca proclamata del benessere: per questo la sua marcia in avanti è inarrestabile. Come poter dire: 'Fermiamoci, riflettiamo', quando sappiamo che la minima pausa ci verrebbe rimproverata come un ritardo tecnologico, forse irreversibile, rispetto ai progressi dei nostri concorrenti? Come dice Marguerite Yourcenar 'il desiderio di fare il mondo prevale su quello di appropriarsi del suo significato' [...] L'unica opportunità di appropriarsi del senso della storia che facciamo passa attraverso una sorta di ecumenismo delle intelligenze. Invito a una moratoria rivoluzionaria sull'idea stessa di progresso, a una convergenza sulla non-proliferazione delle conquiste scientifiche." Gli agenti di questa sospensione possono essere gli stessi ricercatori? (È un altro punto all'ordine del giorno nel dibattito bioetico: deontologia o norme istituzionali?) Testart non ha dubbi: "Il ricercatore è troppo specializzato per agire in questa immensa vertigine, appannaggio dei filosofi." Ma la singolarità della situazione che stiamo vivendo ("Ciò che caratterizza la nostra epoca è l'unione di un'ideologia scientista trionfante con l'accelerazione della produzione scientifica, e questo connubio ha raggiunto per la prima volta la violenza") rende necessario un controllo sociale dell'attività scientifica: "Ne consegue, scrive Testart, che, per essere efficace, il controllo sociale deve esercitarsi non tanto a livello dell'applicazione delle ricerche, quanto a quello della loro produzione."» (Fabio Terragni, Il codice manomesso, cit., pp. 170-173) |